Conformismo e nuova società

«Europa Socialista», a. II, n. 5, 23 marzo 1947, p. 13.

CONFORMISMO E NUOVA SOCIETÀ

«Servi quando puoi: servire fa bene» è inciso sull’architrave di una vecchia casa cinquecentesca di Spoleto e, sebbene l’intenzione evidente della scritta sia una pia raccomandazione di carità, di evangelico servizio del prossimo, il suono untuoso di quel consiglio ci ispirò un’immagine piú profonda e piú tristemente italiana. Un’immagine in quel momento legata al fascino della nostra storia, almeno dal cinquecento in poi, quando l’ossequio cortigianesco divenne attraverso l’autoritarismo spagnolo e la controriforma cattolica piú largo e meno episodico senso di conformismo. Servire non solo perché una dura necessità lo impone, perché non è possibile sottrarsi ad un ordine armato, ma piú ancora perché l’autorità assume un volto giovesco, celeste e il genuflettersi a lei coincide con la pace intima e tutto un regolato vivere ne discende fino alla moda dei vestiti e delle letture. L’uomo ha un naturale istinto (che è poi un istinto infantile) a conformarsi, a seguire una regola già data, e ciò tanto piú quando la regola è autoritaria e circonfusa di santità. L’equivoco dell’«omnis potestas a deo» confluendo con il dogmatismo piú assoluto di una verità in cui «non cambia mai bianco né bruno» hanno condizionato la mentalità italiana in un’abitudine al piú aderente conformismo le cui conseguenze solo i fanatici di un’esteriore compattezza potrebbero valutare positivamente. Ad esempio tutte le apologie, piene spessissimo di elementi storici sicuri, della controriforma come promotrice di vita, di costume, naufragano di fronte a questa parola: conformismo. Non è grande una civiltà che pur maestosa, lascia dietro di sé un’eredità cosí triste e forma un habitus che come certi vizi risorge per lo meno nel sogno, in una ripugnante compiacenza di essere con tutte le carte in regola, inappuntabile di fronte ad un codice che ci segue in tutta la nostra giornata, in tutte le nostre azioni. Se il conformismo è stato in ogni campo e in ogni paese una malattia sempre pronta a manifestarsi (dal conformismo dogmatico fino al piú raffinato dandismo), da noi si è ingigantito, fino a costituire in molti periodi il vero costume italiano, pur sotto forme di individualismo puntuale, contraddittorio e, a farlo apposta, piú facilmente reattivo a motivi di magnanimità, di alta moralità che non alle rozze e comode imposizioni della tradizione e del potere. Donde i fenomeni letterari piú recenti dello strapaesanismo (sempre a favore dei regionali), delle “Italie barbare”, l’esaltazione del menefreghismo cosiddetto antiborghese e borghesissimo invece perché sempre attento a non sgarrare e a non urtare i potenti. Questa mentalità che ha origini vecchissime e che ha assunto nella tradizione famigliare una specie di ossequiosa pietà verso ammaestramenti paterni, giunse naturalmente al suo massimo sotto il fascismo che sembrò spremere la quintessenza di questa eredità centenaria e riuscí almeno in certi momenti a generalizzare ancor piú l’orrore della coscienza personale, dell’intimo impeto rivoluzionario, e il bisogno di conformarsi, di non trasgredire minimamente il codice scritto e non scritto della convenzione ufficiale.

È di questa triste eredità, che periodi di intensa esemplarità personale (Mazzini soprattutto) non poterono in realtà che intaccare, che noi dobbiamo particolarmente tener conto, se non vogliamo rischiare di perdere l’occasione di una vera esperienza rinnovatrice.

Nel dare questo avvertimento si è ben consci dell’accusa di moralisti che ci si può muovere e si è d’altronde ben sicuri della puerilità di un ritardo sulla costruzione di una nuova società in attesa di un’educazione integrale che resterebbe utopistica senza un adeguato muoversi della realtà sociale. Sono i reazionari in veste progressista (e spesso molti nell’ottima buona fede di un idealismo mal digerito) che reclamano prima l’educazione poi la trasformazione, sono gli storicisti faciloni o interessati che non trovano mai nel presente le condizioni di un atto vitale di rinnovamento; ma sul piano di un sicuro realismo socialista, che sia illusoria ogni educazione data a chi permane in uno stato di sfruttamento economico, è lecito ed urgente questo appello: nel costituire un nuovo mondo, nello stabilire nuovi rapporti umani, si faccia di tutto per spezzare un atteggiamento funesto e sterile e soprattutto per non favorirlo con nuovi ricorsi a forme di zelo conformistico, con nuovi stimoli al menefreghismo sostanziale e all’apparente compattezza combattiva. Tutti gli sforzi dell’intellettuale rivoluzionario devono essere rivolti non solo alla lotta contro il nemico esterno costituito dalle forze reazionarie, ma contro il nemico interno che è di nuovo l’acquiescenza, la supina accettazione di parole d’ordine, l’odio per ogni discussione e per ogni rifiuto. Ogni vero atto vitale presuppone una ribellione ad uno stato di acquiescenza , di obbedienza, di attività mimetica, e l’inizio di ogni costruzione morale ha bisogno di uno spunto di decisione personale cosí intenso da urtare per ciò stesso contro ogni tessuto tradizionale dogmatico. Dove questo punto è interdetto si provoca un complesso facile a sboccare in rivolte astratte, senza base storica: fu proprio da noi e in Spagna che durante l’ultimo ottocento si ebbe l’esplosione piú ingenua di forme anarchiche romantiche.

Quel «no» che gli italiani migliori dissero al fascismo monarchico trionfante e che moltissimi generosi hanno detto alla tragicomica repubblica fascista, non deve essere piú dimenticato e gli animi dei rivoluzionari devono essere pronti a farlo risorgere davanti a un provvedimento ingiusto, a un funzionario non degno, a una mentalità che non si approva. Bisogna educare le masse non tanto nel senso delle nozioni, quanto in questo senso personale, nella sincerità delle loro esigenze e nel controllo personale di queste. Questa è la vera coscienza rivoluzionaria e senza di essa su di una mentalità quale quella che una tradizione di confusionismo ha creato in Italia, ogni costruzione rivelerà presto o tardi la sua intrinseca debolezza.